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da EdicolaWeb.Tv del 25 dicembre 2018

 

Nelle discussioni, più a meno accese, con gli studenti di sinistra del mio liceo, negli ormai lontani anni Settanta, ricordo che non mancavano mai le recriminazioni e le accuse per quello che veniva definito «imperialismo fascista».

I nostri interlocutori fingevano di dimenticare che l’ispirazione italiana ad un impero coloniale non era una specificità del regime di Mussolini. E ciò non tanto perché l’avventura coloniale italiana era cominciata durante il governo Crispi nel 1911-12 con la conquista della Libia, quanto perché in quell’epoca il possesso delle colonie era una caratteristica delle nazioni «liberal-democratiche». Inghilterra e Francia avevano un vasto impero coloniale; Spagna e Portogallo, sia pur ridimensionate, conservavano i loro territori d’oltremare; nazioni «minori» come Olanda e Belgio possedevano loro colonie, mentre la Germania ne era stata privata dopo la sconfitta nel primo conflitto mondiale.

La conquista italiana di un «impero» in Africa Orientale era dunque la naturale aspirazione di una media potenza che rivendicava il suo ruolo nello scacchiere internazionale.

Un filo di continuità con il livore dei settantottini lo avrei ritrovato più tardi nella sistematica denigrazione del colonialismo italiano contenuta nei libri di Angelo del Boca.

Chi invece voglia affrontare con maggiore obiettività questa pagina poco esplorata della nostra storia, ha ora di nuovo a disposizione il lavoro dello storico e giornalista Arrigo Petacco, ristampato in una nuova edizione da Utet con il titolo Faccetta Nera. L’illusione coloniale italiana.

Giornalista e storico di grande capacità divulgativo, scomparso quest’anno all’età di 89 anni, Arrigo Petacco affronta i diversi aspetti della conquista e della perdita dell’Abissinia: dalle motivazioni politiche all’entusiasmo dei nostri connazionali; dalle reazioni estere alla condotta della guerra; dalla gestione dell’Impero fino alla sua rapida dissoluzione.

Vogliamo soffermaci qui su due aspetti: la specificità dell’amministrazione coloniale italiana e l’incapacità del nostro esercito a resistere all’offensiva inglese.

A differenza del modello prevalente, che possiamo definire «predatorio», in quanto concepisce la colonia come un territorio dal quale prelevare le ricchezze da riportare nella madre patria, nell’Africa Orientale si ci riproponeva di realizzare una porzione di Italia. Per questo occorreva dotarla delle necessarie infrastrutture e in prospettiva popolarla con quella percentuale di italiani che fino all’avvento del Fascismo era costretta ad emigrare all’estero.

Nel capitolo del libro che affronta la politica coloniale italiana dopo la conquista dell’Impero, Petacco riporta un eloquente commento dell’«Enciclopedia britannica». Leggiamolo: «Forse nessuna potenza europea spese mai, in uomini e in denaro, tante risorse in un possedimento coloniale come l’Italia durante il suo breve possesso dell’Abissinia. Il solo programma stradale fu preventivato per assorbire cento milioni di sterline. Fu creato un sistema amministrativo interamente nuovo. L’Africa Orientale Italiana (Abissinia, Eritrea, Somalia, in tutto circa 600.000 miglia quadrate) venne divisa in cinque province, ognuna sotto un governatore responsabile verso il viceré. Addis Abeba e altre città importanti furono dotate di scuole elementari e tecniche, separatamente per cristiani e musulmani. Inoltre vennero istituite scuole agrarie di vario genere e si sviluppò una capillare organizzazione sanitaria. Furono fondate imprese colonizzatrici, organizzazioni industriali di vario genere, si costruirono officine, mulini, stazioni generatrici di energia elettrica. Fu iniziato è sviluppato un programma di costruzioni edilizie nella capitale altrove si intrapresero lavori di ricerca mineraria e di altro genere».

L’impero coloniale italiano fu breve, durò appena sei anni, dal 1936 al 1941. Per spiegare la rapidità con la quale gli inglesi ebbero ragione dell’esercito italiano, Petacco non si accontenta delle giustificazioni comunemente adottate: lontananza dalla madre patria e conseguente scarsità di forze, di risorse e di possibilità di rifornimenti. Quello che mancò oltre ad un comandante più risoluto fu una strategia complessiva, «un progetto offensivo e difensivo, e soprattutto la voglia di fare la guerra sul serio».

Una considerazione che si può tranquillamente estendere all’approccio complessivo con il quale l’Italia affrontò il Secondo conflitto mondiale, che si era creduto tutto giocato sul fronte europeo e rapidamente vinto dai tedeschi.

All’inizio del conflitto in Etiopia e in Libia le forze italiane erano superiori a quelle inglesi e si sarebbero potute battere agevolmente. Per mantenere e far fruttare tale superiorità si sarebbero dovute conquistare subito le postazioni strategiche: l’isola di Malta e il controllo del canale di Suez, difeso da una sparuta guarnigione britannica. Si preferì invece l’invasione della Grecia, una scelta strategicamente irrilevante che si trasformò in un intralcio per la condotta della guerra dello stesso alleato tedesco.

L’essere entrati nel Secondo conflitto mondiale avendo come punto di riferimento le modalità di svolgimento del Primo costituisce d’altronde l’errore fatale commesso da Mussolini. Esso determinò non soltanto la rapida perdita dell’Impero, ma influenzò il complessivo destino del nostro Paese. E da esso discende il giudizio negativo sul Fascismo che diverrà prevalente nel dopoguerra.

 

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